Forum PROCEDURE EX LEGGE FALL. - ATTIVO E CONTABILITà

Prosecuzione attività del fallito imprenditore individuale - art. 46 l.f.

  • Davide Sanguanini

    Mantova
    26/02/2021 18:36

    Prosecuzione attività del fallito imprenditore individuale - art. 46 l.f.

    Espongo il seguente quesito:
    può un imprenditore individuale dichiarato fallito, non avendo altra fonte di sostentamento se non il suo lavoro, proseguire dopo il fallimento la sua attività di lavoro autonomo, ex art. 46 comma 2 (non è compreso nel fallimento "ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia")?
    In ogni caso comunicando al curatore annualmente il suo reddito fiscale ed il suo reddito netto disponibile (con copia dei registri Iva e dell'estratto conto bancario), nel rispetto dei limiti quantitativi stabiliti dal giudice delegato?
    In caso affermativo, può continuare ad utilizzare la sua precedente partita Iva, posto che risulta che l'Agenzia delle Entrate non consenta l'apertura di una seconda partita Iva sullo stesso codice fiscale della persona interessata?
    Grazie per l'attenzione.
    • Zucchetti SG

      Vicenza
      01/03/2021 16:16

      RE: Prosecuzione attività del fallito imprenditore individuale - art. 46 l.f.

      L'imprenditore individuale fallito non è soggetto ad alcun divieto di esercizio di una nuova attività, se non al limite che deve trattarsi di nuova attività, il che non vuol dire che non possa esercitare la stessa attività precedente per la quale è stato dichiarato fallito, ma che la nuova attività non deve in alcun modo costituire una continuazione di quella precedente né può utilizzare beni e diritti acquisiti all'attivo fallimentare o riscuotere crediti risalenti alla fase precedente, ecc.
      Questa possibilità ben si concilia con le norme fallimentari; in primo luogo, infatti, il fallimento e lo spossessamento del fallito determinano una incapacità relativa, che non investe la capacità di agire in relazione ad una nuova attività lavorativa; inoltre la gestione della nuova attività con incassi e pagamenti e tutto quello che segue non va analizzata atomisticamente atto per atto, ma va valutata nel suo insieme come attività d'impresa sicchè l'acquisizione dell'attivo necessario per il suo esercizio va valutato quale bene sopravvenuto, che resta soggetto alla disposizione di cui all'art. 42, comma 2, l. fall., per il quale la curatela ha facoltà di appropriarsi delle sopravvenienze di ulteriori beni per titolo successivo al fallimento "al netto delle spese incontrate per la loro realizzazione"; di conseguenza non possono essere acquisiti i ricavi che sono stati reinvestiti nell'esercizio dell'impresa né ritenuti inefficaci i pagamenti effettuati sempre nell'ambito di tale attività (fornitori, dipendenti, ecc.).
      Quindi ciò che viene in rilievo è, come lei giustamente sottolinea, l'utile ricavato dall'attività svolta ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 46, comma 1, n. 2, laddove si riferisce alla successiva attività del fallito escludendo l'acquisizione al fallimento dei relativi proventi nei limiti occorrenti per il mantenimento del fallito e della sua famiglia fissati dal giudice delegato. Ovviamente, se calcolare il rispetto di tale limite è agevole nel caso il fallito svolga attività di lavoro dipendente potendosi delegare il datore di lavoro di versare alla curatela la parte della retribuzione non destinata la mantenimento del fallito e della sua famiglia, tutto diventa più complicato ove il fallito svolga una attività autonoma, che non può non essere strettamente controllata dal curatore; non nel senso che questi debba o possa svolgere un controllo di merito sull'attività, la cui responsabilità è unicamente del fallito, ma nel senso che possa controllare periodicamente e frequentemente i conti per verificare qual è l'utile e la parte che compete al fallito; peraltro in questi casi, il giudice non può fissare una somma prestabilita ma deve evidentemente indicare una percentuale degli utili che vanno al fallito, prevedendo comunque un minimo.
      Questi sono i principi che reggono la materia e affermati più volte dalla giurisprudenza, specie penale, che si è dovuta interessare dell'accusa di bancarotta (Cass. pen. 01/03/2006, n. 9812), ma anche civile (Cass. 24/01/2008, n.1600), il che fa presupporre che la il fallito possa ottenere una nuova partita IVA. Ma non è così perché la vecchia partita IVA viene utilizzata dal Curatore e ad una persona fisica non possono corrispondere due partite IVA.
      Cosa fare?
      Partendo dal concetto che una è la partita IVA, una la liquidazione periodica e il relativo versamento, una la dichiarazione IVA, la nostra sezione fiscale ha in precedenti risposte elaborato la seguente soluzione: il fallito trimestralmente presenti al Curatore i registri, calcoli l'IVA che ne deriva e se è a debito (caso di gran lunga il più probabile) versi al Curatore il relativo importo; il Curatore sommerà l'IVA a credito e a debito comunicategli dal fallito all'IVA a credito e debito derivata dalle operazioni da lui poste in essere, farà la liquidazione periodica complessiva "ufficiale" e verserà quanto dovuto; nel caso in cui dalle operazioni della procedura emerga un saldo a credito (caso tutt'altro che raro), il versamento sarà inferiore a quanto corrispostogli dal fallito, e la differenza diverrà una entrata del fallimento.
      Il punto è che non esiste una disciplina apposita per cui deve essere contemplata nel provvedimento del Giudice che provvede ex art. 46 l. fall. in modo da non lasciare l'esecuzione alla collaborazione spontanea del fallito; è opportuno quindi che il curatore esponga la questione al giudice e chieda un decreto che stabilisca le modalità sopra dette e i controlli che il curatore deve svolgere.
      Zucchetti SG srl